sabato 28 giugno 2014

Vittime estive

- Oggi ne voglio uccidere due.
Robertino si piega sulle ginocchia, scruta un anfratto nascosto al sole e respira una lametta di odore verde, argomentando un gargarismo di strategie e minacce.
Il caldo che si tuffa in picchiata dal blu di un cielo immobile e senza nubi è un'invisibile raggio laser travestito da estate.
Alle sue spalle, il grande budino di pietre del Torrione. Sotto i suoi piedi nudi, le cuspidi degli scogli, simili a cocci di vetro scuro, lucide di alghe e acqua.
Il mare di fronte a lui è un libro delle vacanze tutto copertina e nessuna pagina di compiti e impegni. 
- Eccoti! - esclama di colpo Robertino, individuando il movimento dello scudo di una moneta grigia; subito dietro, la nacchera di una chela.
Con una mano agguanta in velocità un retino dall'esile collo di legno, indirizzando il canestro subito sotto la vagina di una feritoia, mentre con l'altra si arma di paletta. Quando appoggia l'abbronzatura scrostata delle ginocchia sul minuscolo piatto di pietra di un disco roccioso appena infossato, la paletta tossisce un catarro rosso, di plastica, e Robertino ghigna: - Colpito!
Un granchio delle dimensioni di un fermaglio cade nella rete a carapace il su, scoprendo la nacchera di un ventre latteo e pettinato. Nello stesso momento, dallo stabilimento balneare vicino, il pianto di un bambino sfilaccia i morbidi tentacoli della sonnolenta tranquillità mattutina.
Robertino si alza in piedi di scatto, issando verso l'aureola fantasma della luna la preda crocifissa nell'impiglio del retino. Subito dopo salta uno scoglio, salta uno scoglio, salta uno scoglio, salta uno scoglio... e salta uno sciabordio imbiancato di schiuma e cadaveri di plastica bianca.
A quel punto è pronto a raggiungere il fondale di sabbia del suo secchiello pieno d'acqua, in dieci snodi di caviglia.
Un acquario senza sbarre, da sempre perfetto per il suo piccolo gioco delle torture.

Le chele sono sempre le ultime che stacca dal corpo.
Quattro paia di arti sono capaci di divertirlo per mezz'ora.
I granchi non hanno sangue.
Di solito agguanta quelle protuberanze una alla volta, tenendo fermo sul fondo del secchiello il corpo, premendogli sul dorso una conchiglia - toccare la loro dura viscidezza marina gli suscita un'onda di mal di mare - per poi addentare con le pinzette delle sopracciglia di sua madre lo snodo della spalla.
Così lo chiama lui: lo snodo della spalla. Robertino è meticoloso durante queste operazioni. Abbastanza da ritenersi soddisfatto, nonostante quelle minuscole prede siano senza voce e al piacere manchi un colore.
Robertino si genuflette sulla sabbia calda. Tuffa lo sguardo nell'acquasantiera salata. Gira il retino sottosopra e rimane a contemplare il ventaglio di zampe del granchio impigliato alla rete come una grattugia appesa a una calza di nylon.
La cosa lo diverte. Il pensiero che una volta staccato lo snodo della spalla quell'altalena saporita si fermerà, lo persuade a gustarsi l'aperitivo, facendo dondolare il mostro quel tanto che basta da costringere la sottile collezione delle sue zampe a staccarsi di colpo. Poi, il plop di un tuffo e un veleggiare sottomarino che affonda nel tiepidume dell'acqua fino ad arenarsi sul fondo.

Robertino accusa sempre un tremito tra le scapole durante la degustazione di quei momenti. Sente di essere come suo padre. Sa che quello sconquassamento non è bastardo ma figlio di quell'uomo, figlio di quelle iridi scure, figlio di quel naso aquilino, figlio di quelle mani che sono il futuro delle sue corte unghie nere. Anche se il sentire del genitore raggiunge altezze vicine al metro e ottanta - essere grandi deve significare questo - e quelle vette tolgono l'aria, pesando addirittura sulla voce.
Ecco, è esattamente il tono, la camminata che cambia durante quelle scalate, e questa, per Robertino, è la piu oscura delle diavolerie. Il tremito che solitamente scuote il parlare burbero di suo padre, si trasforma in un terremoto che viene da dentro. Un sisma che scrolla il catrame di sigarette dei suoi polmoni, lo scalda e lo scioglie, così che coli dagli angoli di un'acquolina fino al piatto.
Robertino e la sorella non soprassaltano nemmeno più, nell'udire quell'inconsueta, vellutata maionese che monta tra le fauci del padre. Si prendono per mano di nascosto sotto alla lingua della tovaglia che penzola, e sghignazzano come delfini che hanno appena nutrito l'addestratore con tuffi da pinguino.
- Adesso lo sganghera - pensa ogni volta Robertino, spostando la mano affrancata dalla sorella sul gamberetto del pistolino per paura di farsela addosso per l'emozione. E quando finalmente lo scronc di una lussazione risuona e si espande dalla parabola di ceramica bianca del piatto paterno fino al ventre della volta di mattoni rossi del 'Ristorante da Ignazio, pesci e crostacei a volontà', Robertino guarda i filamenti dello snodo della spalla del sontuoso Granchio Reale di turno che suo padre ordina ogni settimana, pensando che circondato com'è da tutto quel tenero lattughino, il mostro butterato assomiglia incredibilmente al culo cellulitico di zia Giuseppina durante la vacanza sull'orlo verde di un bikini.
Non come le sue prede: meno reali, questo è pur certo, lontane secchielli di acqua bollente da una cucina. Ma vive e sofferenti. Come un aborto. Dove un cucchiaino d'argento di divertimento rovista nell'utero della cattura.

Buona settimana a tutti.

domenica 22 giugno 2014

Clienti

In negozio. Una domenica pomeriggio di giugno.
Abbigliamento: uomo, donna, bambino. Noia: uomo, donna, bambino.
Arriva una signora sull'ottantantina, sulla testa riccia, di un caldo biondo Marilyn Monroe, un paio di occhiali modello plafoniera Kennedy, in bocca una dentiera mercatino dei barbiturici che inducono il suicidio del sorriso, appesa all'avambraccio una borsa killer: in esterno, fiori da piatto di portata, fodera interna, un tripudio di biglietti ferroviari e pattern di Pin up in sottoveste nera.
Indossa un vestito di cotone Inca (inca come incazzatura o incapace di intendere e di volere?) sormontato da una staccionata di collane di legno come volesse evitare alla porta della scollatura di sbattere - da come protende il tronco del collo, di sicuro quell'accessorio è di quercia fossile.
I tavolacci di legno che introducono in negozio, hanno smesso di scricchiolare quando il pendolo del suo polso, incatenato da un'eredità di bigiotteria, ha fatto irruzione nella rigidità tipica del passo dell'oca.
Per un esercito di secondi, il registratore di cassa fissa con il suo occhio da euro19,90 dell'ultimo scontrino la pupilla allagata della vecchiaia.
- Buonasera - dico io, parcheggiata in piedi dietro al bancone, pescando il migliore tra i miei sorrisi da sbrinamento freezer.
L'ottuagenaria soprassalta e ruota il meccanismo del collo, lubrificato da un'artrosi di vene in risalita. Poi, apre la bocca. Asciuga l'esofago con le particelle di polvere non in vendita. Accenna una smorfia. Infine, dice: - Bello... Siete nuovi?
La guardo e rispondo: - No, signora. Il negozio è qui da otto anni.
- Mai visti - strabilia lei, corrucciando le labbra come un culo di pollo elettrificato da un pene ostaggio di una matassa di fili scoperti.
- Davvero? - aggiunge in volata,  pedalando con lo sguardo avanti e indietro lungo un percorso di capi appesi, distribuendo uno stupore dal vago sentore di naftalina e budino alla crema.
- Sì - ri-sorrido io, rivolgendole uno sguardo cortese.
- E cosa vendete? - si informa lei.
- Abbigliamento uomo, donna e bambino - rispondo.
La donna mi guarda un paio di secondi, sposta il baricentro da una zona neutra a una posizione d'attacco e dice: - Bene. E allora ce l'avete un bel reggiseno di pizzo? Sa, di una misura che vada bene per me.
Mi parte un colpo di tosse. Sorrido. Sospiro. Deglutisco: - Spiacente, signora, ma non vendiamo alcun tipo di reggiseno.
La donna mi fissa un attimo attraverso la cornea di millenni e ere che cambiano, poi, rinfoderando il collo nelle grinze di un'alzata di spalle, si gira e sentenzia: - Peccato, sembrava proprio un bel negozio...

Buona settimana a tutti.

martedì 10 giugno 2014

È solo un attimo

Il terrazzino guardava verso una roccia aguzza su cui svettava una torre saracena, grigia come un molare devitalizzato.
Il cielo maculato di bianco e azzurro, il profumo degli zucchini a friggere nella cucina nascosta oltre una tenda di perline e l'intermittenza di macchine, a sfrecciare sul rettilineo dabbasso agli alberi e agli uccellini, incoronavano quel 10 giugno giornata di possibile perfezione. 
- Il tempo scorre come l'olio in una padella antiaderente - pensava ogni volta, appollaiata su un piccolo divano con le gote di cuscini rossi, aspettando che il fornello mordesse d'azzurro il sedere di una di quelle stoviglie.
Amava le forbici e i bricchi di porcellana bianca, se questo si può dire; come amava scrivere su ogni muro bianco dei suoi pensieri di quel suo uomo dagli occhi blu.
- Così perfetto può essere solo il presente - sorrise tra sé, voltando di colpo le spalle alla torre per rientrare in cucina.
Aprì il primo di quattro cassetti, scelse una forbice piccola, con il manico giallo, e si avventurò oltre l'uscio di casa, verso gradini e gradini di rampe in discesa.
Calpestò un ingresso irregolare, verde di moquette e strappi. Abbassò la maniglia difettosa di un portoncino a vetri. Uscì. Attraversò un rigagnolo immobile di autobloccanti. Salì un paio di gradini di cemento, si inginocchiò per accarezzare, in una minuscola oasi di ricordi, oltre un recinto in miniatura, una piccola pinscher invecchiata da scheletrici inverni trascorsi senza padrona. Solo a quel punto si rialzò, pronta a nutrirsi di un delicato attimo di buon odore.
Ne recise quattro, di una sfumatura di colore dell'incarnato di una bambina.
Strinse quattro steli di rosa.
Si punse con le spine del tempo.
Infilò le narici nella corolla di una perfetta fioritura.
Pensò al bricco bianco di porcellana, come agli occhi blu del suo amore.
E quando rientrò, un petalo, morendo, gli accarezzò appena una mano.

Buona settimana a tutti

mercoledì 4 giugno 2014

Stella.

In alto nel cielo vedevano quel brufolo di luce e distanza: una stella.
Per arrivare a lei, i loro occhi seguivano ragnatele di binari meno luminosi. Le seguivano con uno sguardo di vagoncini alla ricerca di una locomotiva o di una stazione.
Si sedevano nel buio del patio, tutt'intorno i rospi accovacciati nei cespugli di bosso a gutturare canzoni, e quel loro soffrire rappresentava al meglio l'incontro di Cosmoterapia a cui si sottoponevano ogni settimana.
L'odore della fresca umidità, grazie all'assenza della luna, si infilava nella fitta boscaglia di peli delle loro narici, strusciandosi come un cane che si gratti la schiena sullo zerbino di una porta spalancata.
Le labbra lustre in un vago sorriso.
Il trampolino di un dolore cervicale per permettere alla fronte di partire verso febbrili spedizioni di profonda libertà.
Quella, la loro missione, il loro razzo, un nuovo centro di avvistamento su cui trasportare pesanti bagagli di aspirazioni. 
Anche quando la stella, catturata dal peso dei loro desideri, si lasciava andare d'improvviso lungo l'ampio arco di una caduta.
Che sorrisi!
Che buonumore!
Che magica Cosmoterapia!
Anche se nel cielo una stella seminava una cometa di vivida e lucente morte, in picchiata nell'ingordigia nera della pupilla lucida dei loro occhi.

Buona giornata a tutti

lunedì 2 giugno 2014

Parco giochi.

Sedevo su una panchina, il naso affacciato sulle sbarre delle mie stringhe. La coppia dei miei piedi stazionava immobile nel carcere di gomma di un paio di Adidas. Due galeotti, quei miei piedi, con barbe di pelucchi neri tra le dita e baffi dello stesso paio di calze della settimana appena trascorsa. 
Qualsiasi vecchio, passando e urtando un bastone contro il pomolo del mio ginocchio, si sarebbe chiesto quale stanza nascondevo dietro a quella rotula tenuta in piedi da cerniere infiammate per mancanza di movimento.
Inganni, avrei potuto rispondere. Pretesti spessi come fili da stendere, tirati da un estremità all'altra di principesche camere di bugie.
Mi piaceva immaginare letti sontuosi. Donne immobili, sdraiate, nude e bianche come federe fresche di bucato. Comodini con arterie di intarsi. Candelabri con braccia insanguinate di rugginne e cera. Prati di tappeti ricamati, dove scorpioni di pensiero avvelenavano sguardo e saliva. E sempre la stessa specchiera, a cui rivolgere ogni giorno l'uguale domanda: - Adesso che ho trent'anni, cosa dovrebbe succedere? 
Domanda che mi ripetevo fino a convincermi che qualcosa sarebbe successo; non sapevo ancora bene cosa, ma durante quei deliri avvicinavo con una smorfia il naso dei miei brufoli a quello stesso specchio, bloccando tra le unghie un misero shuttle di pus, che godevo a far partire dalla piattaforma dei miei sadici sorrisi fino a costringerlo ad atterrare sulla mezzaluna della mia faccia pallida e smunta.
Fino a quel caldo pomeriggio di maggio, tutto mi era sembrato inutile, curioso, rivoltante.
Se avevo, come ogni giorno, parcheggiato le suole di un cazzo di paio di scarpe sull'asfalto di un parco pieno di bambini, era stato solo per annusare la maturazione di un frutto di noia, intercettando con il mio sguardo più vacuo l'anguria di un culo, così, di passaggio, fa niente se chiuso in un paio di jeans o in visita al mondo dopo essere uscito da un'ascellare minigonna da troia.
- Non ho più voglia di farmi quella fottuta domanda! - mi ripetevo ogni volta che resuscitavo dal cestino d'erba in cui mi piaceva sdraiarmi.
Poi, qualcosa era successo davvero: in quel maledetto pomeriggio di rotule e bambini, il diurno pallore dei miei viaggi interplanetari, alle 15.30 del mio swatch, si era bloccato nello sguardo infuocato di una vigilessa poco sportiva, la quale, dopo essersi avvicinata, strangolandosi un dito con la sapiente acrobazia di un ubbidiente fischietto, mi aveva chiesto se stavo scherzando o se quella che stavo fumando era davvero una cazzo di canna.

Buona settimana a tutti.