venerdì 13 marzo 2015

L'inquilina

Quando vedo qualcuno voltarsi di scatto, non resisto: a mia volta mi giro a spiare.

Successe qualcosa del genere il giorno in cui scoprii il segreto della mia vicina.
La signorina Letizia, anziana, riservata, ambasciatrice di uno scialle candido, non mi aveva mai dato l'impressione di nascondere qualcosa.
In effetti, uno strano rumore era fiorito dal bulbo del suo appartamento ormai da qualche settimana, ma quello che sulle prime definii un lieve e appena udibile ticchettio - sorto un mattino mentre mi trovavo seduta con il naso nella tazzina di un caffè bollente, fissando la parete della mia cucina domandandomi con quale vano della sua vita confinassi - ben presto si era trasformato in una sequenza cadenzata, quasi piacevole, facendomi sorridere come stessi ascoltando un buffo concertino di nacchere; anche se nulla, e dico nulla, di così particolare da farmi sospettare quello che di lì a poco avrei scoperto. 

Di quella donna sapevo ben poco, lo stretto necessario: vedova, senza figli, inquilina di quello stabile dai tempi della sua inaugurazione a metà degli anni quaranta, gentile e riservata; di una riservatezza profumata, invitante, suadente.
Pensare che se quella sera non ci fossimo quasi scontrate sul pianerottolo per combinazione, quel suo voltarsi di scatto per buttare un'occhiata attraverso la ferita aperta dell'uscio dimenticato scostato, non mi avrebbe mai catturata.
In fin dei conti, il suo nome, Letizia Lorenzi, era da sempre solo un elegante e sottile tratto scuro, appena inclinato, in corsivo, inciso sullo scudo luccicante di una targhetta d'ottone. Sempre lustra, quella sua toppa di riverberi, in cui talvolta, passandoci davanti, avvicinavo il volto per divertirmi con l'immagine del mio naso deformato. Era una lente, quella mandorla luminosa. L'illustrazone di una cartolina di realtà con gli stessi angoli smussati che si possono trovare nelle fiabe.

- Sa, mi sarebbe tanto piaciuto avere un nipotino - sentii dire un giorno alla signora Letizia. Stava parlando con il signor Carlo, un vecchietto dignitoso, sempre per mano a magri sacchetti di spesa. I due, erano al centro del pianerottolo, un disimpegno esagonale con quattro porte - tre, gli usci dei nostri appartamenti. L'uomo, le aveva risposto con un sorriso, inclinando appena la fronte per guardarla al di sopra della montatura delle sue rinunce, e lei, stringendosi appena sotto alla gola il bianco dello scialle, lo aveva ringraziato con un: - Ma su, venga un'altra volta a bere una tazza di tè! Ho ancora qualcuno di quei biscottini...

In effetti, fu solo una rapida occhiata quella che diedi all'interno dell'appartamento, prima che la gentilezza della signora Letizia tornasse a nascondersi dietro al vecchio uscio di legno scuro. Ma tanto bastò per chiedermi se il mio naso, questa volta, si fosse avvicinato un po' troppo allo spioncino di un'illusione.
Perché ciò che vidi fu un corridoio, una bugia di ottone a sorreggere il frutto luminoso di una candela, un piccolo bancone di legno addossato a una parete e due figure: una, quella di un dignitoso vecchietto, in piedi, di profilo, gli occhiali sulla punta del naso, un piccolo martello e uno scalpello tra le mani, e l'altra, quella di un burattino, di legno, seduto sul bancone, un cappellino di carta e un corto grembiulino, un lungo naso a punta e un battito di nacchere di quelle che immaginai sarebbero presto diventate le mani di un bambino.

Buona giornata a tutti