martedì 4 febbraio 2014

Alassio

Passavo da quella strada ogni mattina, trovando ormai familiari l'asfalto dissestato, i rivoli d'acqua in uscita da ogni pertugio e gli alberi con i tronchi spezzati. La pioggia di quell'anno aveva ingravidato d'acqua ogni ventre, anche se in modo così profondo da non avere idea di quanto la forza di ciò che stava accadendo stesse avanzando pur rimanendo invisibile agli occhi di chi, come me, considerava Alassio baciata dal sole.
Era una serpentina di case sulla prima collina, quella in mezzo a cui passavo per scendere in centro. La stessa strada che gli avi degli abitanti delle frazioni avevano misurato con diligenza e pazienza seguendo i passi di vecchi muli e carretti. Vie centenarie che consideravo un diritto e una sicurezza, nonostante lungo il corso degli ultimi cinquant'anni sassi, rii, viottoli e spazi ancora disponibili fossero stati rubati dalla mano dell'uomo; per costruire e vendere un panorama, denigrando il buon senso dei siti delle vecchie costruzioni, trasformando fianchi di collina franosi in scarpe con il tacco di pretenziose ville da sfilata.

Matilde uscì in giardino. Dopo lunghe giornate di pioggia, sua madre la spinse fuori di casa.
- Porta Carlotta sull'altalena - le disse, dopo averle infilato gli stivalini di gomma,  mettendole in testa un cappellino, perché il sole di febbraio fa venire il mal di gola.
Carlotta, da buona bambola, si lasciò strapazzare dalle braccia avventurose di quella bambina di cinque anni. Venne accompagnata al limite del giardino a testa in giù, mezza svestita e tenuta salda per una caviglia; ciondolò come l'asta di una pendola, sbattè l'occhio sinistro contro il manubrio di un triciclo arrugginito, parcheggiato vicino a una muschiosa catasta di legna, e infine fu sdraiata e legata al rettangolo di un sedile di legno, con una corda da saltare rosicchiata da scoiattoli e stagioni.
Il ramo del vecchio carrubo che sosteneva l'altalena, scricchiolò d'umidità come Matilde diede la prima spinta, e la fascia di terra al confine della sua chioma, dopo l'avvisaglia di un secco tremolio, si aprì nello stesso momento.
Matilde guardò la ferita appena comparsa nell'aiuola dove ogni primavera nascevano trombette di fiori gialli. La raggiunse. Si inginocchiò lì vicino per infilare un dito nella terra dove sapeva a dormire grasse famiglie di lombrichi. Riuscì a nasconderci la mano fino all'avambraccio, dentro a quella spaccatura, tanto comoda e larga era. Talmente aperta da non sporcarle di fango nemmeno la maglia. Si morse il labbro. Seguì la frattura attraverso la staccionata di confine. Cercò di individuare la cannuccia di uno di quei vermetti che scodinzolavano ogni qualvolta la coda - o la testa? non lo capiva mai - rimaneva fuori dalla terra per metà della loro lunghezza. Guardò fino alla villa di nuova costruzione dove abitava Federica Maria. Una bambina appena più grande di lei, che incontrava spesso dalla dogana dell'inferriata, e ogni volta le chiedeva: -  Perchè abiti in una casa vecchia? Sei povera?
Non le piaceva quella bambina, specie da quando si era accorta che aveva lasciato a dormire sul letto perfetto di un prato verde e fradicio di pioggia, un'intera colonia di Barbie, vestite da Principessa e da sera.
Matilde sapeva che il rettangolo del suo giardino poteva mettere paura alle bambole: era un essere di terra viva, magico, talvolta capace di inghiottire, senza lasciarne traccia, la sua palla, rubandola dall'abbraccio del guazzabuglio di giochi che talvolta ospitava.
Così Matilde si preoccupò per quella colonia di bambole magre e ben vestite; e per i fiori che di lì a poco sarebbero dovuti spuntare, pensando che dopo quel repentino morsicone di vuoto molte delle loro sottili radici dovevano essere state strappate.
Guardò la serpentina che attraversava la terra come se si fosse trovata a margine del ghigno di una bocca nera frastagliata da fangosi denti aguzzi, alzandosi di scatto, tornando a giocare di gran fretta con l'altalena.
Carlotta era leggera. Fu facile farle prendere il volo; talmente semplice e divertente che ben presto la testa spettinata di quella bambola con le ginocchia sbucciate, raggiunse le foglie del ramo più alto, rimanendo impigliata come un uccellino nella trappola di un nido.
Matilde guardò la bambola, poi intimò al vecchio carrubo: - Ridammi la bambola!
Ma se l'albero mosse appena le sue fronde fu solo per ubbidire al volere di un buffo di vento. Perciò Matilde si aggrappò al suo tronco, decisa a scalarlo. Ma la suola dei suoi stivalini grattò appena la pelle ruvida di quel nonno bitorzoluto, capace solo di lasciare cadere frutti puzzolenti per tutto il giardino.
Fu durante quell'abbraccio che un rumore mai sentito, simile allo sbadiglio di un gigante, riecheggiò nel cielo sgombro di nubi. Matilde guardò verso il sole e invece di nubi e temporale vide solo le fronde della fitta famiglia di rami dell'albero scodinzolare. Poi sentì sua madre urlare qualcosa oltre le sue spalle e quando l'albero si decise finalmente a liberare l'altalena e la bambola, Matilde abbassò lo sguardo e si accorse che il prato e la casa di Federica Maria stavano scivolando lungo il fianco della collina, accompagnando fino in centro, al ballo, l'intera colonia di Barbie. 

Buona settimana a tutti.

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