lunedì 2 giugno 2014

Parco giochi.

Sedevo su una panchina, il naso affacciato sulle sbarre delle mie stringhe. La coppia dei miei piedi stazionava immobile nel carcere di gomma di un paio di Adidas. Due galeotti, quei miei piedi, con barbe di pelucchi neri tra le dita e baffi dello stesso paio di calze della settimana appena trascorsa. 
Qualsiasi vecchio, passando e urtando un bastone contro il pomolo del mio ginocchio, si sarebbe chiesto quale stanza nascondevo dietro a quella rotula tenuta in piedi da cerniere infiammate per mancanza di movimento.
Inganni, avrei potuto rispondere. Pretesti spessi come fili da stendere, tirati da un estremità all'altra di principesche camere di bugie.
Mi piaceva immaginare letti sontuosi. Donne immobili, sdraiate, nude e bianche come federe fresche di bucato. Comodini con arterie di intarsi. Candelabri con braccia insanguinate di rugginne e cera. Prati di tappeti ricamati, dove scorpioni di pensiero avvelenavano sguardo e saliva. E sempre la stessa specchiera, a cui rivolgere ogni giorno l'uguale domanda: - Adesso che ho trent'anni, cosa dovrebbe succedere? 
Domanda che mi ripetevo fino a convincermi che qualcosa sarebbe successo; non sapevo ancora bene cosa, ma durante quei deliri avvicinavo con una smorfia il naso dei miei brufoli a quello stesso specchio, bloccando tra le unghie un misero shuttle di pus, che godevo a far partire dalla piattaforma dei miei sadici sorrisi fino a costringerlo ad atterrare sulla mezzaluna della mia faccia pallida e smunta.
Fino a quel caldo pomeriggio di maggio, tutto mi era sembrato inutile, curioso, rivoltante.
Se avevo, come ogni giorno, parcheggiato le suole di un cazzo di paio di scarpe sull'asfalto di un parco pieno di bambini, era stato solo per annusare la maturazione di un frutto di noia, intercettando con il mio sguardo più vacuo l'anguria di un culo, così, di passaggio, fa niente se chiuso in un paio di jeans o in visita al mondo dopo essere uscito da un'ascellare minigonna da troia.
- Non ho più voglia di farmi quella fottuta domanda! - mi ripetevo ogni volta che resuscitavo dal cestino d'erba in cui mi piaceva sdraiarmi.
Poi, qualcosa era successo davvero: in quel maledetto pomeriggio di rotule e bambini, il diurno pallore dei miei viaggi interplanetari, alle 15.30 del mio swatch, si era bloccato nello sguardo infuocato di una vigilessa poco sportiva, la quale, dopo essersi avvicinata, strangolandosi un dito con la sapiente acrobazia di un ubbidiente fischietto, mi aveva chiesto se stavo scherzando o se quella che stavo fumando era davvero una cazzo di canna.

Buona settimana a tutti.

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